Scusa: στέγει (stegei), verbo στέγω (stégō) che significa: coprire, nascondere, tenere a bada. Potrebbe essere tradotto con preservare. La traduzione precedente della CEI, scriveva tutto copre, effettivamente era quella più letterale.
Si intende quindi una protezione e una custodia dalla debolezza del peccato colui e colei che si ama. Non allo scopo di nascondere ma di incoraggiare
Tutto scusa
111. L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare.
112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere la legge divina non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.
113. Gli sposi che si amano e si appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.
Crede: πιστεύει (pisteuei): accreditare, avere fiducia in qualcuno.
Credere sempre in colui o colei che si ama. L’amore non smette di credere nell’altro, così come Dio continua a credere nelle nostre possibilità.
Ha fiducia
114. Panta pisteuei: “tutto crede”. Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico, bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri.
115. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.
ἐλπίζει (elpizei). Sperare sulla base di una promessa che abbiamo ricevuto.
Spera
116. Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra.
117. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.
ὑπομένει (hypomenei): rimanere, non recedere o fuggire. Poiché si è ricevuta una promessa, si rimane sul luogo della sua realizzazione anche se tarda. Amare, significa credere nel bene dell’altro e quindi si attende la sua realizzazione.
Tutto sopporta
118. Panta hypomenei significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare. Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King, quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore».[114]
119. Nella vita familiare c’è bisogno di coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.
Una lettura cursiva della Genesi, potrebbe farci definire i primi undici capitoli come la narrazione mitica dei fallimenti di Dio con l’umanità. Adamo ed Eva, Caino e Abele fino al diluvio con la decisione di porre fine a un errore compiuto, sembra che Dio voglia eliminare quanto ha fatto: il creato non gli appare più «cosa buona» ma un luogo di malvagità.
«Cancellerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato e, con l'uomo, anche il bestiame e i rettili egli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti» (Gen 6, 7).
Dopo il diluvio la speranza di un'alleanza nuova, siglata dall’arcobaleno tra le nubi, si perde nel capitolo 11, con il racconto della torre di Babele. L’umanità non appare fedele e distrugge le possibilità di ascolto, di comunicazione, di accoglienza dell’altro, presa dalla follia del potere.
Chi sarà in grado di raccogliere il desiderio di Dio? Chi potrà rispondere alla sete di incontro autentico, di fedeltà senza tradimenti che sembra al centro del cuore di Dio? Chi è l’uomo veramente fedele che con il suo modo di essere e di comportarsi può permettere a Dio di farsi presente nella storia?
Se l’autore della Bibbia non fosse Dio ma un uomo, questo ipotetico scrittore avrebbe potuto presentarci un personaggio eroico, un condottiero, un “semidio”, come per tutti i popoli del Mediterraneo di quel tempo. Il nostro scrittore, invece, delinea le caratteristiche di un uomo, già maturo, che segue un'ispirazione, un sogno, una speranza.
Abramo era abituato a usi e costumi di una società forte e sicura, con il suo tempio e gli dèi della città a difesa della prosperitàdi tutti gli abitanti. Tra l’altro la terra di Abramo, Carràn, doveva essere un luogo ottimo, rispetto alla fatica di partire verso l'ignoto, alla ricerca di nuovi pascoIi per le greggi e gli armenti e per la sua gente che lo aveva seguito con Sara.
Questo è dunque il modello di uomo e di donna graditi a Dio che lo scrittore presenta: nessun eroismo, nessuna impresa, solo un cammino nomade, come per tanti beduini, dietro un'ispirazione, che con l'andare degli anni diviene una delusione.
Quella voce avvertita in sé, da parte di Abramo, sembra spesso la voce che interpella tutti ad andare oltre, a credere nella novità della vita, a intuire che forse là ci chiama il Bene che per noi non cessa di creare nuove possibilità di incontro. Noi non siamo ciò che siamo stati fino ad ora. L'uomo e la donna di fede vivono la contraddizione di una speranza sempre messa alla prova, di un'esperienza di relazioni sempre prive di certezze assolute.
«Il Signore disse ad Abram:
“Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).
Il pensiero che l'autore biblico sembra scorgere in Abramo è: come possiamo essere visitati dalla novità, oltre la vecchiaia e oltre le delusioni e la depressione che giunge al calare del giorno, dove il ricordo di quanto accaduto nelle ore di luce appare terribilmente identico ai tanti giorni degli anni trascorsi a guardare solo il cambiamento del proprio corpo e l'allontanarsi della speranza? Morire senza un figlio rendeva vana tutta la fatica. A chi sarebbe andato il patrimonio accumulato in tanti anni? È la morte ad avere allora l'ultima parola? Cosa significa nutrire ancora una speranza?
Quale benedizione e quale generazione, quale terra potevano sperare di raggiungere, dopo tanti anni? I nomadi hanno tappe sempre uguali, oasi e pascoli che sono gli stessi nel ciclico andare di stagioni e percorsi che si ripetono sempre.
La speranza viaggia sempre insieme allo scoramento. Perduti gli dèi della città, forti e sicuri, perduto un contesto sociale e culturale nel quale si è nati, la storia appare contraddittoria. Dio ha tempi lunghi, mntre l’uomo vede finire il proprio tempo. Sappiamo che Dio ha un disegno ma è affidato a strumenti inadeguati: un uomo e una donna delusi dalla vita.
«Poi gli dissero: “Dov'è Sara, tua moglie?”. Rispose: “È là nella tenda”. Riprese: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Intanto Sara stava ad ascoltare all'ingresso della tenda, dietro di lui. Abramo e Sara erano vecchi, avanti negli anni; era cessato a Sara ciò che avviene regolarmente alle donne. Allora Sara rise dentro di sé e disse: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”. Ma il Signore disse ad Abramo: “Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C'è forse qualche cosa d'impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te tra un anno e Sara avrà un figlio”. Allora Sara negò: “Non ho riso!”, perché aveva paura; ma egli disse: “Sì, hai proprio riso”» (Gen 18,9-15).
La delusione di Sara è in quel riso di autodileggio, un umorismo amaro, di perduta autostima, il senso di colpa di non avere dato un figlio al suo uomo. Anche Abramo aveva riso dentro di sé all'identica promessa di Dio, un'illuione ancora come quella che l'aveva portato a lasciare la casa dei suoi, un pensiero del quale forse avrebbe fatto meglio a non fidarsi più. Meglio accontentarsi di quanto si ha e lui ha Ismaele, il figlio della schiava che la stessa Sara gli ha messo tra le braccia. Ma il Dio della Bibbia è imprevedibile e la sua promessa, che appare una follia, va oltre ogni attesa:
«Dio aggiunse ad Abramo: “Quanto a Sarài tua moglie, non la chiamerai più Sarài, ma Sara. Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei”. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: “A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all'età di novant'anni potrà partorire?”» (Gen 17,15-17).
Cosa hanno in comune Abramo e Sara se non la consapevolezza che è meglio non costruirsi sogni, per non dover soffrire in un'attesa inutile che sbatte in faccia solo la loro incapacità a essere felici?
La storia per loro cambierà e lo scrittore biblico dà forza alla promessa di un Dio che muta l'impossibile in storia nuova, ma non c'è un lieto fine, almeno nel modo in cui potremmo attendercelo. Isacco, il cui nome significa Dio ha sorriso o Dio sorrida, è il dono che fa sorridere pienamente, senza più sentimenti di amarezza, ma ad Abramo e Sara verrà chiesto di perderlo e saperlo perdere. Presto la gioia si muta in tragedia:
«Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,2).
Allora la fede si può affermare tale solo quando le promesse appaiono non mantenute, con una speranza che spera contro ogni speranza. Cosa vuole Dio da questa coppia così provata dalla vita? Vuole forse una relazione che dispera e che continua a far sperare, una fedeltà che trova il suo significato solo tornando ad abbandonarsi. In definitiva vuole essere lui soltanto il centro del cuore di quella coppia, di ogni coppia, di ogni relazione umana.
Abramo e Sara pieni di contraddizioni e di ritorni indietro, esemplari nella fede per la loro non esemplarità, per dire dell'unica fede possibile che Dio attende: una fiducia con una storia dove alla fine non conta più ciò che si è raggiunto ma con chi si è camminato, il compagno di viaggio dai tempi lunghi e dai lunghi silenzi. Così Abramo e Sara, e ciascuna coppia, possono divenire il luogo, la relazione dove il veramente Fedele si svela.
Se la nostra storia è piena di ritorni indietro e perdite fede, come la si può proporre abitata da Dio? Forse è proprio in questa tensione continua a non cedere alla rassegnazione, a interrogarci nella contraddizione, a chiederci sempre e ancora cosa voglia Dio, dove intenda portarci, che si apre una relazione con lui, a volte drammatica, a volte fiduciosa e abbandonata.
La metafora del riso amaro non è poi lontana dal pianto del Getsèmani, dove l'assenza di Dio lascia all'uomo Gesù il compito di renderlo presente, come Amore donato oltre ogni speranza, nel vuoto del rifiuto e della sconfitta.
Abramo e Sara hanno sperato, atteso, gioito, disperato, hanno cercato un senso alla loro vita, anche tentando di costruirselo e di difenderlo da soli. Ma l'Altro amante, che ha vissuto con loro la loro relazione d'amore, ha incontrato le stesse contraddizioni. Ha gioito alla loro gioia, Isacco è Dio che sorride, li ha lasciati attendere finché si sentissero delusi, per sentirsi lui cercato, voluto; ha chiesto infine che distruggessero il frutto della loro speranza, che Isacco fosse sacrificato ...perché non vuole che ci leghiamo a null'altro che a lui, che viviamo nella sua speranza, che gioiamo di quegli attimi brevi in cui avvertiamo la sua presenza, che raccontiamo il nostro passato per trovarlo guidato da lui.
I figli non ci appartengono e ciò è vero non solo per confermare che occorre lasciarli liberi ma anche, e soprattutto, per essere noi liberi.
Così la nostra storia, come ciascuna storia di coppia, può divenire un cammino di spiritualità un itinerario mistico che non fugge dalla realtà, che si confronta con le contraddizioni e spesso ne esce sconfitto, ma che avverte che altre sono le realtà che contano. «Solo Dio basta», diceva santa Teresa d'Avila.
L'obiettivo è lui stesso nella relazione d'amore di Abramo e Sara e di ciascuna coppia umana; con il suo desiderio di abitare la nostra vita con tutte le contraddizioni che la vita stessa presenterà. Accetta anche che la fiducia in lui si riduca a una flebile fiammella di fronte alle durezze e ai drammi dell'esistenza, cercherà anche un uomo che sia capace di mantenerla accesa nella contraddizione massima, quando sarà ucciso in nome di Dio.
La coppia a servizio del Vangelo
Via Ada Negri, 2
27100 - Pavia
Tel. +39 0382 26002
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SS. Messe feriali: 8.15; 18.30
SS. Messe festive: 11.30; 18.30
Confessioni: tutti i giorni (tranne il venerdì pomeriggio) dalle 8.45 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 18.00